Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Eugenio Montale, I limoni
Ma che cosa c’entrano i limoni con la tecnologia? Un limone colto dall’albero ha la scorza ruvida. Più curato è l’albero, più ruvida è la scorza. Se la si schiaccia un poco ne esce un olio profumato e d’improvviso la superficie diventa liscia. E poi c’è quel succo asprigno, così buono sulla cotoletta e con le ostriche, nei drink estivi e nel tè caldo! Tatto, olfatto, gusto. Tre dei cinque sensi non possono essere trasmessi attraverso la tecnologia. Tre quinti della realtà, il sessanta per cento.Questo libro è un invito a farci caso.
Le Edizioni Lindau presentano
Il profumo dei limoni
Tecnologia e rapporti umani nell’era di Facebook
di Jonah Lynch
prefazione di Aldo Cazzullo
---------------------------------------------------------------------------Edizioni Lindau Collana «I Draghi» pp. 144 euro 11,00
ISBN 978-88-7180-922-9
prima edizione: maggio 2011
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DA OGGI IN LIBRERIA
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«Lynch si pone dalla mia parte, dalla parte di tutti noi, con curiosità e apertura. Questa apertura nasce dalla sua esperienza poliedrica: nato in una comune di hippies, una laurea in fisica, un master in pedagogia, sacerdote. In lui è evidente il desiderio di conoscere la realtà nella sua interezza, dalle frontiere della scienza alla filosofia, dall’iMac ultimo modello fino all’educazione. Non è un reazionario nostalgico del passato, né un rivoluzionario ingenuo che crede di poter sconfiggere il male con un colpo di spugna. È un uomo che vuole difendere il nuovo dalla superficialità. Vuole imparare a salvaguardare tutto ciò che trova di bene nella sua esperienza, passata e presente.
In molti passi del libro, si ha la netta percezione che per Lynch ciò che è reale, ciò che è vero, è anche molto bello. Egli preferisce il reale alle maschere con cui tutti ci schermiamo dalle ferite, non per un eroismo filosofico, ma perché è convinto che gli conviene. Guarda in faccia le dinamiche della vita, le scoperte della neuroscienza, l’esito delle tecniche pedagogiche, e le pieghe dei rapporti umani, per scoprire come meglio vivere.
Sono pagine stranamente laiche. Uno si aspetta da un sacerdote, prima o poi, un fervorino. E infatti c’è negli ultimi due capitoli, ma le considerazioni che nascono dalla fede non sono essenziali al ragionamento. È evidente che per Lynch la fede è ciò che permette di guardare il mondo senza paura, ma non ha sostituito la sua ragione.»
dalla prefazione di Aldo Cazzullo
Le nuove tecnologie hanno cambiato il mondo... e i rapporti sociali, familiari e di amicizia. Migliorandoli? Gli adolescenti di oggi quanto sono diversi da quelli di ieri? Jonah Lynch fa parte della generazione che ha vissuto in pieno la nascita della rivoluzione informatica, è un educatore e si pone delle domande. Come stiamo usando il nostro tempo? Cosa possiamo fare per usare al meglio le nuove tecnologie? E come affrontare i problemi che queste sollevano?
Il tema è affascinante, "moderno" e di sicuro interesse; trattato in modo approfondito, originale e inaspettato.
Nella prima parte del volume, l'Autore riflette su alcuni degli aspetti più importanti delle nuove tecnologie, con uno sguardo anche a studi neurologici. Nella seconda parte la riflessione verte sulla mediazione tecnologica dei rapporti umani. Nel bene e nel male. La terza parte affronta gli aspetti più educativi e la domanda più "tecnologica", cosa dobbiamo fare? Anche, e soprattutto, con le nuove tecnologie, dobbiamo e vogliamo imparare la libertà.
L'AUTORE
Jonah Lynch (1978), è sacerdote dal 2006. Dopo essersi laureato in Fisica alla McGill University a Montréal, entra in seminario. Ha studiato filosofia e teologia all’Università Lateranense e ha ottenuto un Master in Education presso la George Washington University. Scrive su temi di musica e teologia per l’edizione statunitense di «Communio». In Italia ha pubblicato due libri (Aspettare insieme, Marietti 2008, e Padre sposo amico, Effatà 2004) e ha curato quattro video documentari, tra cui Across the Wall (Journeyman Pictures 2010). Vive a Roma ed è vicerettore del seminario della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo.
DAL LIBRO
Ho cominciato presto a vivere il fascino della tecnologia. Mio zio mi ha regalato un pc quando avevo solo 7 anni – era un meraviglioso TI 99/4A. Come tanti di quei primi pc, si attaccava al televisore per usarne lo schermo, e usava un normale registratore di cassette come disco. Da quell’anno, il 1985, ho programmato in BASIC, poi al liceo ho imparato C++ e Pascal; all’università FORTRAN e Java. Mi piaceva giocare con la grafica, e in particolare i frattali mi affascinavano per il legame tra matematica, potenti macchine di calcolo, e la bellezza sorprendente dei disegni che ne uscivano.
Sono stato il primo al liceo ad avere un modem: già nel 1991 bazzicavo sui «bulletin board» locali, dove chattavo di cose che mi interessavano con persone che non ho mai visto. Poi nel 1994 sono arrivati il primo indirizzo email (come tutti i «nerd», ho scelto il nome di un oscuro personaggio shakespeariano come username) e i primi tour su Internet per cercare software nelle directory FTP e per chattare con persone sempre più lontane su Internet Relay Chat. Esisteva già il Web, ma non lo avevo mai usato. L’avrei scoperto solo nel 1996 all’università. Ma in chat ho incontrato un ragazzo mio coetaneo, un finlandese che scriveva bene l’inglese, con interessi filosofici, e ho passato qualche mese a scambiare lettere quasi quotidiane con lui: l’esistenza di Dio, il bene e il male, l’arte… Ogni tanto mi torna in mente quello scambio. Sfortunatamente non ho salvato i messaggi e non ricordo il nome impronunciabile del mio amico virtuale, per cercarlo su Facebook. Durante l’ultimo anno di liceo ho anche seguito un corso, Introduzione alla Filosofia, offerto dall’università locale tramite email! Anche in quel caso, non ho mai conosciuto il professore se non attraverso i messaggi.
Come si capisce dal tema del corso e dell’epistolario perduto, ho conosciuto anche un’altra fascinazione oltre a quella tecnologica: quella della vita dello spirito, la vita intellettuale. Essa mi ha portato in un primo momento verso la filosofia, poi alla fede cattolica, e infine in seminario.
Per molti anni ho vissuto senza un computer. Dopo la mia giovinezza tutta tecnologica, durante gli anni dell’università e i primi anni di seminario, non possedevo un computer mio. Un portatile costava troppo e poi non ne avevo veramente bisogno. Certo, usavo compulsivamente quelli del laboratorio di informatica per vedere se qualche amico mi aveva scritto, e per fare i compiti…
Ma nel 2002, quando ero in seminario già da due anni, me ne è tornata la voglia. Vedevo tutti i miei compagni che cominciavano ad avere dei portatili bellissimi, in grado di fare cose meravigliose, con quegli schermi lucidi e attraenti. Per Natale, ho chiesto ai miei genitori di comprarmi un Toshiba, non ultimissimo modello ma comunque di buona qualità. Era molto pesante e molto grande, ma era bello ed era mio. Subito mi sono messo a scaricare di tutto.
Ogni sera scaricavo il pdf del giornale del giorno successivo, per leggerlo in macchina andando a scuola. Era un iPad ante litteram, due chili e mezzo di vetro e acciaio con cui ascoltare Mozart mentre leggevo il giornale alle 7 di mattina sulla terza corsia dell’autostrada. Ottimizzare i tempi! «No waste motions!», «Non fare movimenti inutili», come diceva quel tale nel lavoro teatrale che abbiamo allestito al liceo, un padre di famiglia che mette un grammofono con dischi educativi fuori dalla porta del gabinetto affinché anche quei momenti intimi servissero all’edificazione dei figli.
Poi all’università prendevo appunti: certamente è più facile copiarli, condividerli e cercare la parola chiave se i testi sono in formato elettronico. Sono veloce a battere a macchina: come tanti piccoli americani, ho imparato in tenera età a non guardare le dita e a scrivere in fretta. Nonostante ciò, è difficile stare dietro a un prof che spiega. Qualcuno va piano, ma la maggior parte dice troppe cose perché si possa trascrivere tutto. Lo sapevo già – nei quaderni di appunti non scrivevo tutto – ma sul computer mi era più difficile essere sintetico. E poi certe idee erano più facili da trascrivere con frecce e disegni su una pagina bianca… Mi sono sforzato per qualche settimana, poi ho lasciato il portatile a casa e sono tornato alla carta.
Continuavo comunque a passare molto tempo con la mia nuova macchina: c’erano tanti dischi da copiare o convertire in mp3, spazi immensi su Internet in cui curiosare, programmi da cercare che mi avrebbero fatto risparmiare tanto tempo, anche se sommando il tempo speso per cercarli e vagliarli, non so se l’ho davvero guadagnato. Essendo una macchina che girava con Windows, ogni tre o quattro mesi occorreva formattare il disco, reinstallare tutto, e ripartire. La prima volta è stata divertente, come la pulizia del garage da bambino. La seconda volta meno. E poi i virus, lo spyware, gli aggiornamenti, le licenze da craccare: trovavo la mia vita invasa da nuove curiosità, piccole battaglie da combattere e opere di manutenzione obbligatorie per il buon funzionamento della macchina. Cresceva in me il desiderio di uno strumento migliore, magari meno flessibile, ma anche meno accessibile agli attacchi. Allora ho letto tutti i forum disponibili, e mi sono convinto che i Macintosh erano migliori. Sei mesi di giri sui siti, di decisioni, ripensamenti, decisioni, dubbi, e infine la certezza: iMac, sei bellissimo!
O mio Macintosh! Mio iMac! Come ho apprezzato la tua semplicità elegante, la tua ossequiosa velocità! Nuovo computer, nuova vita. Poiché ero ancora studente, quelli della Apple mi hanno regalato un iPod gratis con il computer. L’ho caricato di miliardi di byte di musica, e sono uscito in bici. All’inizio andava tutto bene. Con la musica tranquilla, andare in bicicletta era come volare. Poi l’effetto «colonna sonora» mi ha esaltato un po’ troppo e ho fatto delle manovre tra gli autobus e le macchine che avrebbero potuto costarmi la pelle. Ho tolto l’iPod, tremando, e non l’ho più messo per andare in bici.
Lavoravo molto con il computer. Dovevo scrivere decine di pagine di report ogni settimana per l’università, oltre a preparare le lezioni per il liceo dove insegnavo fisica. E per di più c’era la serie televisiva «24» alla televisione il lunedì sera! Da non perdere: dopo un solo episodio in compagnia di Jack Bauer, ero drogato. Non potevo più farne a meno. Tutto bene fino al giorno in cui un amico mi ha dato tutte le stagioni precedenti di «24» in dvd! Un disco, tre episodi, 120 minuti complessivi. Quanti dischi? Sette, forse otto per stagione. Quattro stagioni, che ho visto interamente. Guardavo gli episodi mentre studiavo, in una finestra dello schermo del computer. Era divertente poter saltare le brutte scene con la figlia di Jack, una noiosissima ragazza che si lamentava sempre. Ma nel saltare fra il video, il libro da leggere e il testo da scrivere, rispondere al telefono e guardare l’email ogni volta che la pallina rossa indicava un nuovo messaggio, stavo perdendo qualcosa.
Me ne sono accorto nell’ora di silenzio che noi sacerdoti della Fraternità San Carlo osserviamo ogni giorno. In essa troviamo l’àncora della nostra vita. Il silenzio è una necessità grave, un obbligo davanti a Dio. Leggendo il breviario, trovavo che gli occhi volavano veloci sulle parole, spesso senza ricordare nulla un minuto dopo. Leggevo i testi della Bibbia come leggevo i libri scolastici, come leggevo il sito del «New York Times» o il «Corriere», come guardavo «24». Restavo in superficie, cercando le parole più utili o le scene più emozionanti. Ogni pausa, ogni respiro, ogni congiunzione, li sentivo come un vuoto da eliminare. Stavo perdendo la capacità di contemplare, di leggere profondamente, di commuovermi per le sfumature. Stavo perdendo la percezione del tempo come un’esperienza positiva. Mi sembrava solo un ostacolo al correre sempre più veloce, più veloce che potevo. Stavo perdendo molto.
L’anno successivo il mio superiore mi ha chiesto di aiutarlo come vice-rettore del seminario. Da quel momento, ho guardato con crescente interesse le stesse dinamiche che vivevo io nei ragazzi che dovevo educare. A furia di insegnare loro il silenzio («Leggi piano, poche pagine. Quando qualcosa ti colpisce, fermati. Contempla») mi sono trovato a riflettere sul mio modo di pregare. Notavo che alcuni guardavano dei film in camera sui loro portatili, cosa non permessa dalle nostre regole di vita – ma era la stessa mia ossessione di appena un anno prima. Altri mantenevano i rapporti con i propri familiari via sms e telefono, ma avevano relazioni deboli con i compagni. Qualcuno scriveva email fiume, e non riusciva a finire i compiti per la data indicata.
Mi riconoscevo in tutti questi atteggiamenti: ciò che avviene sul computer è quasi sempre più attraente di un libro, qualunque esso sia. E l’email sembra sempre più urgente di qualunque altra cosa, tant’è che si controlla la posta più volte al giorno. È come quell’ansia fortissima che provavo da adolescente, quando passava il postino: avrebbe portato una lettera inviata da Lei? Qualche volta sì, qualche volta no. Poi il postino se ne andava. Soltanto il giorno dopo ero tentato di ritornare davanti alla finestra. Adesso attendo messaggi molto più banali con una fretta altrettanto parossistica. Perdo ancora molto tempo a chiudere e riaprire il programma di mail mentre avrei altro da fare.
Ora però ho anche una responsabilità educativa. Questo mi ha aiutato a uscire dal letargo in cui stavo cadendo, per affrontare i miei problemi e riflettere seriamente su quelli che vedevo nei seminaristi.
Per informazioni, copie saggio e interviste all'Autore:
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Silvja Manzi & Francesca Ponzetto
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